Zanzare e cefali, cefali e zanzare.
Paludi fitte come i baffi di Franz Josef, malaria, peste e colera.
Grosso modo doveva essere questo Panzano prima del cantiere.
Ci vivevano coraggiosi pescatori e qualche contadino buttato a zappare la terra umida delle più antiche bonifiche. Chi mai avrebbe potuto scommettere un fiorino su questa landa desolata? Solo i fratelli Alberto e Callisto Cosulich, di Lussino, che erano abili armatori e avevano fiutato il vento della grana, ovvero l’imminente sviluppo della marina mercantile nell’impero austro-ungarico.
Vienna guardava a Trieste con un misto di indulgenza ed invidia. Le invidiava il mare e gli orizzonti; l’indulgenza era per la popolazione alla quale piaceva assai parlare, disquisire e sfornare intellettuali piuttosto che imboccarsi le maniche. Così la capitale le aveva regalato il porto, roba grossa per l’epoca, in modo che i triestini fossero occupati nel lavoro e non pensassero solo a frequentare i caffè letterari e a raddrizzare le antenne per cogliere il profumo dell’Italia. Che diamine!, tuonava l’imperatore a Schönbrunn, gli abbiamo dato tutto a questi triestini e loro adesso vogliono andare sotto l’Italia?
I Cosulich erano uomini di mondo e di mare, e quelli di mare sono ancora più di mondo. A loro interessavano gli affari e non le bandiere.
Quando gli ingegneri austriaci hanno deciso di costruire il porto di di Trieste si sono accorti che serviva della sabbia per consolidare e banchine e si sono chiesti: e dove l’andiamo a prendere la sabbia che qui intorno c’è solo roccia? A Panzano sono andati. I fratelli Cosulich, ai quali non sfuggiva nulla, finito il dragaggio sono venuti a Panzano e si sono guardati negli occhi. Senza dirsi una parola hanno deciso: con i fondali già belli e profondi ecco come faremo il nostro cantiere.
Così iniziò o meglio così si legge nei libri di storia. Perché c’è anche chi maligna che a Trieste i Cosulich non avrebbero trovato manodopera tanto disposta a rimboccarsi le maniche. Quelli, i cittadini, erano gente furba, sensibile agli agi e di spaccarsi la schiena non avevan gran voglia. Qualcuno aveva pure letto i libri di Ettore Schmitz, un impiegato della Veneziani vernici che aveva zero passione di lavorare ma era assai bravo a raccontare storie. Per sua fortuna la ditta era della suocera, la quale non se la sentiva di cacciarlo.
Già, ma torniamo ai nostri Cosulich che uno come lo Schmitz l’avrebbero licenziato in tronco. Insomma, i lussiniani hanno intuito che costruendo ex novo un cantiere in quel luogo dimenticato da Dio avrebbero potuto assumere gente non solo di Trieste, ma anche friulani, bisiachi, isontini. Uomini tenaci e temprati alle fatiche e meno sensibili ai piaceri della vita: quelli non li avevano mai visti nemmeno con il cannocchiale i paiceri della vita.
Tratto da Benussi, Cova, Malusà, Valcovich “Storia e memoria di Panzano”